venerdì 31 dicembre 2010

Sala dell'Immacolata

Nel 1858 il papa Pio IX commissionò al più celebre pittore italiano dell'epoca, Francesco Podesti, la realizzazione di un ciclo di affreschi per ricordare l'istituzione del dogma dell'Immacolata Concezione, da egli stesso proclamato l'8 dicembre 1854. Da quell'epoca la sala prese il nome attuale. L'interesse artistico è notevole, in quanto gli affreschi rappresentano una delle ultime opere di arte sacra concepita con grandiosità e per commissione papale, in un momento in cui sempre più prendeva campo una concezione laica dell'arte. La Sala dell'Immacolata Concezione è situata nella Torre Borgia e conserva al suo interno diversi volumi che contengono il testo del dogma dell'Immacolata Concezione nelle principali lingue del mondo. Gli affreschi maggiori sono sulle pareti e rappresentano la Definizione del Dogma e la Proclamazione del Dogma; essi sono accompagnati, sulla volta e tra le finestre, da figure di Sibille e dalle allegorie della Fede e della Teologia, nonché da personaggi dell'Antico Testamento. Francesco Podesti, da vero "pittore di storia", prima di realizzare l'opera si preparò ritraendo dal vero tutti coloro che erano presenti nel momento della

proclamazione e della definizione del dogma, in modo da riportare con estrema esattezza la verità dei fatti. Si scontrò anche con la curia romana, che voleva impedirgli di rappresentare un prelato (padre Passaglia) che, pur acceso sostenitore della proclamazione del dogma, aveva espresso poi idee non troppo canoniche ed era caduto in disgrazia. Per amor di verità il Podesti si rifiutò con energia di cancellare un personaggio che nonostante tutto era presente. Sostenne la sua convinzione con un esempio irrefutabile: Giuda Iscariota, che certo fece qualcosa di peggiore di padre Passaglia, viene sempre rappresentato nei dipinti dell'Ultima Cena!

Sala Sobieski

La Sala Sobieski deve il nome alla grande tela del pittore polacco Jean Matejko (1838-1893) che rappresenta la vittoria del re di Polonia Giovanni III Sobieski contro i turchi a Vienna nel 1683. Gli altri dipinti della Sala sono ottocenteschi, così come quelli della Sala dell’Immacolata, caratterizzata da una grande vetrina, dono della ditta francese Christofle, nella quale sono conservati libri donati da re, vescovi, città e diocesi a Pio IX (1846-1878) in occasione dell’istituzione del dogma dell’Immacolata Concezione.

Raffaello e le Stanze

Particolare dell'Incendio nel borgo con Enea e Anchise
Le Stanze dell'appartamento di Giulio II sono state chiamate di Raffaello fin da sei mesi dopo la morte dell'artista: le battezza così Sebastiano del Piombo, che pure, in vita, gli era stato rivale. Realizzandole, Giulio II compie il sogno dei suoi predecessori Nicolò III e Nicolò V, di edificare un "palazzo in forma di città", che raccolga la Corte e gli uffici: come un altro palazzo, altrettantorinascimentale e famoso, quello Ducale di Urbino, voluto da Federico da Montefeltro. All'ultimo piano dell'edificio di Nicolò III -in parte ricostruito da Nicolò V-le Stanze raffaellesche, il cui percorso ingloba anche la Cappella di Nicolò Vdipinta dal Beato Angelico, sono cinque. Una però, quella dei Palafrenieri o anche dei Chiaroscuri, è ormai priva dell'apparato originario, distrutto e sostituito da altri dipinti a metà del XVI secolo. Tre delle Stanze, coperte da volta a crociera, sono di misure simili, dieci metri per otto, mentre la quarta, la Sala di Costantino, è di dodici metri per diciotto. Alcune, secondo il Vasari, presentavano affreschi precedenti, di Piero della Francesca, Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta; altri importanti maestri avevano già cominciato a ridecorarle per Giulio II. La prima cui Raffaello si applica è la Stanza della Segnatum, così chiamata perché -ci racconta il Vasari -in epoca successiva con Paolo III Farnese nel 1541 vi si trasferisce l'omonimo Ce supremo) Tribunale Apostolico. Ai tempi di Giulio, invece, la sala ospitava verosimilmente la sua biblioteca privata: 220 volumi di formato nemmeno paragonabile a . quello odierno, disposti in quattro fila di scaffali su tre delle quattro pareti. Raffaello vi lavora tre anni, dal 1508 all'l1; il primo pagamento è del gennaio 1509. Dal luglio 1511, l'artista affresca la seconda Stanza, detta di Eliodoro dal soggetto di una delle scene che la dominano, la vicenda dell'omonimo profanatore scacciato dal tempio. Attraverso uno stretto passaggio, il locale, che era la sala delle udienze, comunicava con l'anticamera e la stanza da letto del Pontefice; dipingerlo richiede altri tre anni, fino al 1514. Frattanto, però, il settantenne papa Giulio, il 20 febbraio 1513, sei giorni dopo la condanna della Francia da parte del Concilio Laterano da lui voluto, ha lasciato questo mondo. Il lavoro di Raffaello, che non ha ancora terminato la parete dell'Incontro di Attila e Leone Magno, prosegue sotto il pontificato di Leone X, Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. Papa Della Rovere, è stato scritto, concepiva l'arte in funzione quasi propagandistica: come un mezzo, clamoroso e visivo, per riaffermare la centralità della Chiesa; lo scisma protestante è quasi alle porte: nel 1517, Martin Lutero affiggerà le sue 95 tesi, e l'anno successivo sarà dichiarato un eretico. Al contrario del suo predecessore, Papa Medici, invece, amava l'arte per antica educazione: nella Firenze del "Magnifico", infatti, era stato abituato a non disdegnare né il bello, né il lusso, si circondava di sapienti e letterati. Il nuovo Pontefice è eletto l'II marzo 1513, e già ai primi di luglio troviamo un pagamento in favore del Sanzio. L'anno dopo, se ne andrà anche Bramante e Raffaello gli subentrerà nella direzione dei lavori della nuova Basilica; ma del progetto bramantesco saranno realizzati soltanto i pilastri della cupola. Nel 1515, il Papa commissiona all'artista i cartoni per gli Arazzi destinati alla Sistina. Forse come omaggio devozionale al nuovo Capo della Chiesa, Raffaello ha già eseguito la Madonna della seggiola (Firenze, Palazzo Pitti); al banchiere Chigi fornisce i cartoni per i Profeti e le Sibille (Roma, Santa Maria della Pace), e per lui progetta la cappella di Santa Maria del Popolo; ma soprattutto, tra il 1514 e il 1517, lavora alla terza delle Stanze, quella chiamata dell'Incendio di Borgo, anche qui dal soggetto di. uno dei dipinti.

Le Stanze, tuttavia, non mobilitano tutte le energie dell'Urbinate che, del resto, era affiancato da un nutrito stuolo di collaboratori: nel medesimo periodo, infatti, trova anche tempo (e ispirazione) per altre opere.La sua ultima stagione è feconda. Il Ritratto di Baldassarre Castiglione (Parigi, Louvre); il Doppio ritratto della Galleria Doria Pamphili di Roma, una delle poche raccolte private che nell'Urbe sia rimasta tale; La velata, ora a Palazzo Pitti; la celeberrima Fornarina (Roma, Palazzo Barberini). Tra i soggetti sacri, l'Estasi di Santa Cecilia (Bologna, Pinacoteca Nazionale), la Madonna dell'Impannata appartenuta a Cosimo I Medici (Firenze, Palazzo Pitti), la Madonna Sistina per la chiesa di San Sisto a Piacenza (Dresda, Gemaldegalerie). Nei Palazzi Vaticani, inoltre, mentre opera nelle Stanze, Raffaello riesce anche a curare la finissima decorazione di un appartamento "all'antica" per il cardinal Bibbiena, composto da un bagno (la Stufetta) e una loggetta decorati con scene mitologiche ispirate alla letteratura classica. Ma Raffaello non è soltanto questo: Roma, la città in cui vive, la conosce e l'ama. Non soltanto ce ne offre una pregevole ricostruzione classica nell'Incendio di Borgo ma nel 1514, con la consulenza di Baldassarre Castiglione, scrive al Papa, lamentando il decadimento dei monumenti antichi, di cui dimostra profonda conoscenza. Leone X lo nomina Conservatore delle antichità, con l'incarico di redigere una nuova pianta della città. Con un gruppo di collaboratori, Raffaello inizia subito l'opera, misurando ed esplorando ruderi che erano ancora per buona parte sepolti; con grande lungimiranza, vagheggiava un catalogo completo delle emergenze antiche dell'Urbe; ma, purtroppo, nulla ci è pervenuto di questo suo lavoro.

Ormai, dopo la Loggia di Psiche alla Villa Farnesina del banchiere Chigi, e le ultime opere sacre in cui -oggi i critici lo riconoscono -abbonda la mano della "bottega", dopo l'incredibile Doppio ritratto (parigi, Louvre) in cui tradizionalmente si crede di riconoscere l'artista e il suo maestro di scherma, sono arrivati i tempi delle Logge; dell'ultima grande tela (quattro metri per tre) rimasta incompiuta, la Trasfigurazione; e quelli dell'ultima Stanza, la Sala di Costantino, così chiamata perché ospita, appunto, la Battaglia di Costantino, forse creata quasi per rivaleggiare con quelle di Anghiari e di Cascina commissionate dalla Signoria fiorentina a Leonardo e Michelangelo. Raffaello ne esegue i cartoni, fa preparare una parete, dipinge un paio di figure, ma gli manca il tempo per finire. Completeranno l'opera i suoi allievi: il 6 aprile 1520, un Venerdì Santo come -secondo Vasari -di Venerdì Santo era nato, e -per altri nel giorno del suo trentasettesimo compleanno, il maestro improvvisamente se ne va. "Una febbre continua et acuta"; il diario di Marcantonio Michiel racconta che lascia sedicimila ducati; altri accenna al cordoglio "d'ogn'uno et del Papa", "la Corte in grandissima et universale mestitia"; qualcuno afferma perfino che, nel momento supremo, il palazzo si sia addirittura squassato, minacciando un crollo e ripetendo così i fenomeni sovrannaturali che accompagnarono in un altro Venerdì Santo, il primo, la morte di Gesù. I "letterati s'addolorano" perché non ha avuto il tempo di "fornire la descrittione et pittura di Roma antiqua, che 'l faceva, che era cosa bellissima": sarebbe stato il primo inventario dei Beni Culturali romani, quello che, 470 anni dopo, non esiste ancora.

Raffaello e la sua epoca

"Nessuno è giunto tanto avanti nella scienza del disegno come Michelangelo, nella verità del colore come Tiziano, nell'incanto della pennellata e del chiaro scuro quanto Correggio, nella composizione quanto Raffaello. Ma  nessuno come Raffaello si è mai avvicinato a ciascuno dei tre rivali in ciò che è il loro merito esclusivo; mentre nessuno di essi ha eguagliato Raffaello nelle qualità che gli sono proprie. Ecco in cosa consiste il suo incontestabile primato".
(Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, Histoire de lo vie et des ouvrages de Raphael, 1824)

Forse aveva proprio ragione un suo contemporaneo che nel 1520, l'anno stesso della morte dell'artista, scriveva: "Se gli fosse stato dato di vivere sino alla vecchiaia, sarebbe stato un altro Buonarroti". Infatti, riesce davvero difficile pensare che l'intera esistenza di Raffaello Sanzio (Urbino 1483 -Roma 1520), si racchiuda in soli 37 anni; che in nemmenoquattro lustri si compendi l'intera parabola creativa dell'autore di tante Madonne e tanti Ritratti; di progetti architettonici come la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo a Roma e, sempre nella Capitale, Villa Madama; di autentici capisaldi nella storia dell'arte quali (per citarne solo due) lo Sposalizio della Vergine del 1504, oggi a Brera, e l'estrema Trasfigurazione d'ella Pinacoteca Vaticana; ma, soprattutto, !'ideatore del "ciclo più celebre e imitato dell'arte italiana, autentica summa rinascimentale", e cioè le Stanze e le Logge Vaticane. Un pittore già onorato quand'era ancora in vita, tanto da essere sepolto -unico artista, con a lato una lapide che ne ricorda la fidanzata Maria Bibbiena -nel Pantheon. Di lui ci parla perfino (era il 1515: aveva appena 32 anni) Ludovico Ariosto nell'Orlando furioso; è "divina" la sua pittura per Marco Antonio Biondo (1549); "arricchì l'arte della pittura di quell'intera perfezione che ebbero anticamente le figure di Apelle e Zeusi, e più, se si potesse dire" secondo Giorgio Vasari (1568). Con il libro dei secoli, sfogliamo quello delle citazioni: "Ogni operetta sua vale un tesoro" (Federico Zuccari, 1604); "lo stesso Poussin, il più gran pittore mai esistito, dopo aver imitato per qualche tempo Tiziano, s'è poi arrestato a Raffaello, dando così a conoscere che lo considerava superiore agli altri" (Gian Lorenzo Bernini, 1663); "non fu superato in nulla" (Gian Pietro Bellori, 1695); "sarebbe forse rimasto spento se non avesse ricevuto la scintilla dal contatto con Michelangelo, e tuttavia bisogna ammettere che bruciò d'una fiamma più pura, più casta, più continua" (Joshua Reynolds, 1769). Infine, riassumiamo il tutto con Wolfgang Goethe, non sempre tenero nel suo Viaggio in Italia, 1786: "È sempre riuscito a fare quello che gli altri vagheggiavano di fare". Raffaello è figlio d'arte: il padre Giovanni di Sante di Pietro, che lo lascerà a soli undici anni, era anch'egli pittore. Cresce a Urbino, un'atmosfera certamente favorevole al gusto del bello: abita a pochi passi dal quattrocentesco "palazzo in forma di città" di Federico da Montefeltro. Si forma nelle Marche e poi nell'Umbria, che -le coincidenze significheranno pur qualcosa -proprio a quei tempi ci regalano uno tra i massimi pittori, Piero della Francesca, e uno dei massimi architetti, Donato di Pascuccio d'Antonio detto il Bramante. Sboccia precoce alla tavolozza (già magister a 17 anni), sotto la guida d'un altro "grande", il Perugino: "Peruginesco d'estrazione urbinate", sintetizzerà il Longhi. Per vederne oggi le prime opere, bisogna pendolare tra Detroit, Napoli e Brescia, dove è sparsa la Pala del beato Nicola da Tolentino (1500); oppure
Giulio II
recarsi nella Pinacoteca Vaticana per L'incoronazione della Madonna richiestagli nel 1501 dalle monache di Monteluce e che per 18 anni, preda di Napoleone, rimase a Parigi; oppure ancora volare a Londra, Lisbona e negli Usa, per le tre parti della Pala di Città di Castello, dipinta nel 1503. Sono gli esordi di un genio assoluto. Ancora peruginesca è la tavola, datata e firmata "Raphael Urbinas", dello Sposalizio: risale al 1504, quando Raffaello si stabilisce a Firenze, proprio mentre, grazie alla presenza di Michelangelo e Leonardo e dopo la crisi degli ultimi decenni, nella città da dove i Medici erano stati cacciati nel 1494 rifiorisce l'arte. Anche qui va citata una coincidenza singolare, uno di quegli "incroci della vita" che riescono a essere tanto misteriosi quanto eloquenti: Raffaello è a Firenze quando vi abitano il Buonarroti e il Vinci; e sarà a Roma nel 1514, impegnato nelle Stanze in Vaticano, mentre Michelangelo ha appena dipinto la Sistina, e quando anche Leonardo risiederà in Vaticano, in locali preparati per lui al Belvedere. Proviamo per un attimo a pensare che cosa poteva essere, artisticamente parlando, quell'incredibile e unico periodo romano, il "supremo decennio tra il 1510 e iI 1520" per dirla con il Longhi. Leonardo dipinge il San Giovanni Battista (ora al Louvre) e la Leda; studia la quadratura del circolo; progetta, e Leone Xapprova, i! prosciugamento delle Paludi pontine e il nuovo porto di Civitavecchia. Raffaello ha compiuto le prime due Stanze nel nuovo appartamento di Giulio Il Della Rovere. Michelangelo ha appena concluso lo sforzo immane della volta nella Cappella Sistina e, prima del Giudizio Universale che verrà vent'anni dopo, s'impegna nei molti progetti per la tomba di Giulio Il: un lavoro infinito, che lui chiama "la tragedia della sepoltura": "Si io stava a Roma, fussi fatta prima la sepoltura mia che quella del Papa". E, ancora: Bramante si dedica al nuovo San Pietro, dopo che Giulio Il, nel1506, ha deciso di abbattere l'ormai fatiscente Basilica costantiniana (118 per 64 metri; quattro filari di 22 colonne ciascuno; centinaia di lampade,per la cui alimentazione Gregorio II, VIlI secolo, aveva lasciato ben 56 uliveti). Importanti artisti come Pietro Vannucci (il Perugino), Baldassarre Peruzzi, Giovanni Antonio Bazzi (i! Sodoma), Bartolomeo Suardi (il Bramantino) e Lorenzo Lotto sono già stati sconfitti dallo stesso Raffaello, in una "battaglia artistica" mai dichiarata. Il rinnovamento, dalla Basilica e dai Palazzi vaticani cancella o rimuove opere -per dirne soltanto qualcuna -di Giotto (i! mosaico del quadriportico, distrutto; i! Polittico Stefaneschi per l'altar maggiore, ora nei Musei Vaticani) e Piero della Francesca (che aveva decorato la Stanza d'Eliodoro prima di Raffaello). La città, in parte acquista nuove forme, ancor oggi esistenti: nascono le vie Giulia e della Lungara. Non è lontana nemmeno la parabola discendente del potente

Leone X
banchiere di Giulio Il, i! senese Agostino Chigi: all'apice del fulgore, s'era fatto costruire la Villa Farnesina (una loggia affrescata da Raffaello con il Trionfo di Galatea), dalla quale, per épater les bourgeois, durante le cene gettava le stoviglie d'oro nel Tevere (dove tuttavia invisibili reti erano predisposte ad accoglierle). Ma torniamo a Raffaello: dopo quattro anni a Firenze, in cui completa l'apprendistato (ma forse siamo già al diploma), senza perdere i contatticon Perugia né con l'ambiente nativo, nel 150S scende appunto a Roma che, dopo l'effimero risveglio fiorentino, s'avvia a diventare la vera capitale dell'arte. Urbino, Firenze, Roma: un itinerario tutto nelle tre capitali del Rinascimento. La prima prova certa della sua presenza nell'Urbe è del 13 gennaio 1509; in ottobre è nominato scrittore dei "brevi", i discorsi papali: fa già parte dell'entourage curiale. A introdurlo,è stato un suo concittadino, che nell'Urbe s'è già fatto onore, il Bramante: dopo aver progettato in Vaticano i palazzi e il Cortile del Belvedere, nel 1504 era stato incaricato di ideare la nuova Basilica di San Pietro (salva troppo poco della antica, e sarà soprannominato "mastro Ruinante"). La prima pietra è del 1506: l'anno in cui l'Esquilino restituisce il gruppo marmoreo del Laocoonte; al restauro parteciperà anche Michelangelo; nel Cortile del Belvedere, il più ampio del Vaticano, costituirà il primo embrione dei musei; ispirerà intere generazioni d'artisti. Giulio Il aspirava a una renovatio sensibile e palpabile. Eil rinnovamentodel Papa, impegnato anche in

Scuola d'Atene, particolare con Diogene
numerose guerre per riconquistare le città che s'erano ribellate e pronto perfino a partire per il fronte (come nell'assedio di Mirandola, gennaio 1511), coinvolge subito gli appartamentidel Vaticano. Le prime fortificazioni del complesso risalgono a Leone IV, 852; da allora, molti papi si sono industriati in quella che solo al ritorno dalla cattività avignonese (durata dal130S al 1377) è divenuta la loro residenza: prima, i palazzi papali erano quelli del Laterano.Eugenio IV Condulmer, veneziano, e Nicolò V Parentucelli, di Sarzana,incaricano il Beato Angelico di decorare le loro cappelle; Nicolò stesso compie il primo ampliamento d'una certa importanza del palazzo medievale; il granaio del Papa viene trasformato nella Biblioteca Vaticana da Sisto IV, il savonese Della Rovere che affida a un gruppo di fiorentini e umbri (Botticelli, Ghirlandaio, Perugino, Signorelli) la cappella per questo chiamata poi Sistina. Gli edifici attorno a San Pietro (ancora quello vecchio) mutano maggiormente con Alessandro VI, Rodrigo Borgia (1492-1503), che fa edificare gli appartamenti e la torre ancora noti col suo cognome. Èl'edificio, tra i Cortili di San Damaso, del Belvedere e quello piccolo del Pappagallo (dall'antica usanza che ogni pontefice ne tenesse uno in gabbia) dove oggi ha sede il Museo vaticano d'arte moderna. Per sostenere i progetti del figlio Cesare e creargli uno Stato indipendente, Alessandro VI favorisce gli interessi francesi in Italia, entra in conflitto con l'aristocrazia romana e i vari

Scuola di Atene particolare con Democrito
Signori della penisola. APapa Borgia (non occorre ricordare i mille episodi oscuri d'una famiglia per questi ormai tanto rinomata) succede, per meno d'un mese, il senese Pio III Piccolomini. Poi è appunto la volta di Giulio II, Giuliano Della Rovere, nipote di Sisto IV. Tanto il Borgia era vicino ai francesi, quanto il suo successore ne sarà nemico. Al punto che, da loro sconfitto, deciderà di farsi crescere il barbone con cui è perpetuato (anche da Raffaello nelle Stanze), e di non tagliarselo finché il francese Luigi XII non lascerà l'Italia. In chiave anti-francese, dopo la Lega di Cambrai contro Venezia, Giulio promuoverà perfino una "Lega santa". Si può ben capire che non gli fosse particolarmente gradito, per usare un eufemismo, dormire la notte sotto la grande Apoteosi del Borgia fatta affrescare dal suo predecessore (che egli tanto odiava, da chiamarlo perfino"marrano, giudeo, circonciso": lo riferisce Paris de Grassis, nel suo Diario conservato alla British Library) al Pinturicchio. Insomma, papa Giulio cambia casa: nel palazzo costruito da Nicolò III, trasloca in quelle che oggi sono le Stanze, costruite a metà Quattrocento sotto Nicolò Ve dove, tra gli altri, avevano operato anche Andrea del Castagno e Piero della Francesca. Papa Giulio dapprima le affida ad alcuni tra i migliori pittori d'allora: Perugino, Peruzzi, Sodoma, Bramantino, Lotto; presto però, nonostante alcuni avessero già iniziato i lavori, li "licenzia" tutti in tronco, convinto dal Bramante a mettere alla prova quel suo giovane concittadino. Raffaello viene convocato da Firenze (dove la Madonna del baldacchino, oggi a Palazzo Pitti, rimane incompiuta); il Papa lo sperimenta e ne riconosce le doti e le virtù. Nascono le Stanze, e nascono anche le Logge, che servivano a raggiungere la sala dei ricevimenti aggirando i conclavia (le stanze più riservate), ma che saranno utilizzate dai Papi anche per conversare o meditare. Di questo fervore di rinnovamento di Papa Giulio ci parla anche il suo bibliotecario, Lorenzo Parmenio: il Pontefice aveva iniziato a ristrutturaregli edifici fin dal giorno successivo alla sua elezione, facendo costruire dal Bramante, suo architetto preferito, una facciata a logge sulla torre e gli appartamenti Borgia, per ingentilire la parte del severo complesso che guarda verso la città. Aveva anche voluto una via Julia nova per accedere, a cavallo, dal portico di San Pietro alla Sala Regia, accanto alla Sistina, destinata a funzioni di ricevimento; la "via cavalcabile",utilizzata per la prima volta nella Pentecoste del 1506, era l'architravedella viabilità del nuovo appartamento papale. Dall'anno prima, il Pontefice si era trasferito nelle nuove stanze; nello stesso 1506 prende accordi con Michelangelo per la volta della Sistina e inizia la costruzione del nuovo San Pietro; l'anno dopo, fa restaurare la Cappena di Nicolò V, quella del Beato Angelico, inutilizzata dai tempi di Sisto IV; l'anno dopo ancora, verso la fine del 1508, sulla scena del Vaticano irrompe, finalmente.Raffaello.

Piantina

Planimetria dell'Appartamento di Giulio Il e Leone X.
l -Sala Sobieski
2-Sala dell'Immacolata
3-Stanza dell'Incendio di Borgo
4-Stanza della Segnatura
5-Stanza d'Eliodoro
6-Sala di Costantino
7-Sala dei Chiaroscuri
8-Cappella Niccolina
9-Sala degli Svizzeri

giovedì 30 dicembre 2010

Scuola di Atene

Descrizione
L'affresco, inquadrato da un arco dipinto, rappresenta i più celebri filosofi e matematici antichi intenti nel dialogare tra loro, all'interno di un immaginario edificio classico, rappresentato in perfetta prospettiva.

Le figure sono disposte sostanzialmente su due piani definiti da una larga scalinata che taglia l'intera scena. Un primo e più numeroso gruppo è disposto ai lati di una coppia centrale di figure che conversano, identificate in Platone ed Aristotele. Un secondo gruppo autonomo, in cui sono stati individuati i pensatori interessati alla conoscenza della natura e dei fenomeni celesti, è disposto in primo piano sulla sinistra. Mentre di un terzo, anch'esso indipendente e ristretto, disposto simmetricamente al secondo, nonostante gli sforzi degli studiosi è difficile accertare l'ambito intellettuale,[1] nonostante la presenza di una figura identificata in Euclide intento a tracciare una dimostrazione geometrica.
A sinistra della scena domina la statua di Apollo, mentre a destra quella di Minerva. Sotto sono dipinti due rilievi: una Lotta di ignudi ed un Tritone che rapisce una nereide.
Il titolo è molto posteriore al periodo di esecuzione e non rispecchia le intenzioni dell'autore e della committenza e neppure la conoscenza storiografica della filosofia classica che si aveva all'inizio del XVI secolo.
L'iconografia del dipinto è complessa e coinvolge anche gli altri, contemporanei, affreschi della Stanza della Segnatura che è certamente la stanza più importante tra quelle affrescate da Raffaello. In origine la sala era destinata ad essere lo studio e la biblioteca di Papa Giulio II e le quattro pareti rappresentano la tipica classificazione di una biblioteca umanistica del tempo: Teologia, Giustizia, Poesia e, appunto, Filosofia. Tutta la stanza è inoltre improntata a complessi temi iconografici di carattere teologico e filosofico a cui contribuirono senza dubbio i personaggi del circolo neoplatonico che animava la corte papale e mira ad affermare le categorie del Vero, del Bene, e del Bello da ricomprendere nella teologia cristiana.[2] Il titolo dato all'affresco intorno al XVIII secolo, a partire da studiosi di area protestante, storicizzando la rappresentazione, disconosce la complessità del tema iconografico che mira ad esaltare la centralità della Chiesa.
Il tema di questo dipinto, leggibile solo in relazione agli altri dipinti della stanza, è dunque la facoltà dell'anima di conoscere il Vero, attraverso la scienza e la filosofia, e la presenza di così tanti pensatori di varie epoche riconosce il valore del desiderio e dello sforzo di arrivare alla conoscenza, comune a tutta la filosofia antica, visto come anticipazione del cristianesimo.

Tale tema rimanda al complementare dipinto de La disputa del Sacramento, dove invece il tema esalta la fede e la teologia. I due dipinti contrapposti rappresentano così la complessità di rapporti tra la cultura classica e la cultura cristiana, così vitale nello sviluppo culturale del classicismo del primo Cinquecento.
Altre interpretazioni
Nel tempo l'opera di Raffaello ha sollecitato innumerevoli interpretazioni, chiavi di lettura e modelli interpretativi che non si presentano alternativi al riconoscibile programma iconografico dell'intera stanza della segnatura, ma che vi si sovrappongono, creando la percezione di un'opera complessa ricca di livelli interpretativi ed impressa nell'immaginario visivo collettivo. Nell'affresco è stato ovviamente visto un quadro completo della storia del pensiero antico dalle sue origini, ricco di rimandi colti, riferimenti, caratterizzazioni dei principali protagonisti, simboli e riferimenti cifrati.
È stato inoltre notato come vi sia un ordine cronologico nella composizione, da sinistra a destra.
La rappresentazione architettonica
Relativamente alla rappresentazione architettonica che inquadra tutta la scena ed accoglie i personaggi, e che raffigura con grande profondità un edificio con un grande vano centrale a cielo aperto da cui si dipartono i grandiosi bracci di una croce greca di cui di fatto ne sono visibili solo due. Per l'invenzione di tale prospettiva è stato fatto il nome di Bramante perché il maestoso edificio richiama il progetto per la basilica di San Pietro. Da rilevare come le immagini del grandioso cantiere di inizio XVI secolo ci mostrano la crociera in costruzione, ed ancora per molto senza cupola, ed alcuni bracci coperti con volte a botte, così come nell'affresco di Raffaello.
Inoltre l'opera di Raffaello rappresenta un vertice nella tradizione prospettica che aveva avuto ad Urbino uno dei centri di diffusione più importanti ed in cui si era formato il Bramante pittore,
Del resto una restituzione prospettica così complessa lascia pensare che Raffaello si sia avvalso di uno specialista, da individuare non tanto in Bramante quanto in Bastiano da Sangallo, virtuoso autore di prospettive sceniche;[5] del resto fu proprio dall'esecuzione degli affreschi della stanza della Segnatura che Raffaello cominciò ad avvalersi di numerosi aiuti e collaboratori.
Personaggi rappresentati
Le cinquantotto figure presenti nell'affresco hanno sempre sollecitato gli storici per la loro identificazione. Infatti tra i filosofi rappresentati alcuni sono chiaramente riconoscibili per lo specifico ruolo che assumono nella composizione (come Platone o Aristotele ) o per specifici attributi iconografici (come Diogene o Socrate), mentre di altri l'identità è più o meno controversa.
I due principali filosofi dell'antichità, Platone ed Aristotele si trovano vicino al punto di fuga del dipinto che sta tra le figure dei due grandi pensatori quasi a volere indicare che il vero abbia caratteristiche sintetiche, di conciliazione tra quelle già intuite da questi due filosofi, che furono di indubbia importanza per lo sviluppo del pensiero occidentale. Nella raffigurazione dei due filosofi è stata vista, fin dal XVI secolo, anche un'identificazione con i due apostoli Pietro e Paolo.

Queta impostazione gerarchica riflette le convinzioni del neoplatonismo dell'epoca, spiegando la posizione relativamente marginale di Socrate e l'assenza degli ultimi sviluppi del pensiero classico, come gli stoici. Platone ed Aristotele rappresentano i due principali poli di aggregazione delle altre figure, raffigurando in qualche modo la complementarità tra scuola platonica e scuola aristotelica. Platone, regge in mano la sua opera Timeo ed indica il cielo con un dito (indicando l'iperuranio, zona d'essere oltre il cielo dove risiedono le idee trascendenti), mentre Aristotele regge l'Etica stende il braccio destro e rivolge il palmo della mano verso terra rivolgendosi al mondo terreno e alla volontà dell'uomo di studiare il mondo della natura e di essere in contatto con essa.
Attorno a loro e ad altri filosofi e matematici sono raccolti in gruppi i loro seguaci. All'estrema sinistra c'è Epicuro, alle cui spalle è presente una giovane figura di identificazione controversa. Proseguendo verso destra sono stati identificati Averroè, Pitagora, intento a scrivere su di un libro, e Parmenide. Al centro, in primo piano, è stato riconosciuto Eraclito che appoggia il gomito su un grande blocco di pietra, mentre all'estrema destra troviamo Euclide (secondo alcuni studiosi Archimede), che traccia figure geometriche, attorniato da allievi. Alcuni decori sulla sua tunica sono stati interpretati come la firma di Raffaello ("RVSM": "Raphaël Urbinas Sua Manu")
Oltre ai già citati, tra gli altri s'incontrano: Socrate, in una veste dal colore verde bottiglia, che volge le spalle a Platone ed Aristotile e sembra incitare al dialogo il piccolo gruppo di persone che gli sta davanti; Diogene, isolato e steso sulla scalinata; Plotino, a destra, in silenzioso isolamento.
L'angelo della Disputa e la figura biancovestita della Scuola di Atene a confronto. Secondo Giovanni Reale vi sarebbe una corrispondenza tra le due figure, rappresentando la seconda la kalogathia ovvero l'ideale filosofico greco della "bellezzà/bontà".Il personaggio sulla sinistra, di fianco a Parmenide, dai tratti efebici, biancovestito e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è di identificazione controversa, anche se una identificazione generalmente accettata è quella di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II, che all'epoca del dipinto si trovava a Roma. Secondo l'ipotesi di Giovanni Reale questa figura biancovestita è un "simbolo emblematico dell'efebo greco ovvero della "bellezza/bontà", la kalogathia:
« L'interpretazione di questa figura è particolarmente difficile, e da alcuni è stata del tutto fraintesa in vari sensi. Una tradizione ci dice che Raffaello avrebbe riprodotto il viso di Francesco Maria della Rovere; ma alcuni interpreti contestano la veridicità di questa tradizione. Ciò che occorre comprendere non è tanto se Raffaello abbia riprodotto le sembianze di Francesco Maria della Rovere, ma piuttosto che cosa abbia voluto esprimere con quel personaggio. Qualcuno ha notato - anche noi abbiamo confermato [...]- una corrispondenza (non solo nella configurazione ma anche nella posizione) di questo personaggio con quello dell'angelo senza ali in vesti umane nell'affresco della "Disputa" [...]. La soluzione del problema che già altra volta abbiamo proposto, dopo un'attenta e lunga riflessione, e della quale ci andiamo sempre più convincendo, è la seguente: il bel giovane biancovestito, in atteggiamento quasi ieratico, è un simbolo emblematico dell'efebo greco che coltiva la filosofia e incarna la greca kalogathia, ossia la "bellezza/bontà", ideale supremo di uomo virtuoso per lo spirito ellenico. »
(Giovanni Reale. La scuola di Atene di Raffaello. Milano, Bompiani, 2005, pagg. 65-8.)

Ad analoghe conclusioni era giunto il noto storico d'arte austriaco Konrad Oberhuber:

« Il cartone dimostra fuori da qualsiasi discussione che si tratta di una figura ideale e non di un ritratto [...] Il discepolo in bianco, che ci fissa con i suoi strani occhi e ci si libra dinanzi quasi irreale, è l'espressione viva di quell'ideale del Bello e del Buono, e perciò stesso del Vero, nucleo centrale delle correnti filosofiche. »
(Konrad Oberhuber, Lamberto Vitali. Raffaello. Il Cartone per la Scuola di Atene. Milano, Silvana Editoriale d'Arte, 1972, pag.33)

L'improbabile identificazione con Ipazia (matematica di Alessandria d'Egitto del IV-V secolo) non risulta suffragata da nessuna fonte o saggio critico attendibile. Tuttavia risulta recentemente così ampiamente diffusa che non è possibile non darne conto.[8]. Altre figure di non facile riconoscimento sono i due giovani che si trovano all'estrema destra, in vesti contemporanee, in cui si è voluto vedere la raffigurazione ad autoritratto di Raffaello stesso e quella, più improbabile, dell'amico e collega Sodoma che ha lavorato al dipinto sulla volta ed a cui alcuni hanno attribuito un ruolo anche nell'esecuzione dell'affresco stesso.

Figure di contemporanei
Da sempre si è ipotizzato che Raffaello avesse voluto rappresentare nelle numerose figura di pensatori e matematici antichi, personaggi suoi contemporanei la cui identificazione è incerta e controversa. Già Vasari menziona i ritratti di Federico II di Mantova, Bramante, e Raffaello stesso. Particolarmente conosciute, ma non sempre documentate, sono le ipotetiche raffigurazioni di Michelangelo nella figura di Eraclito (no. 13 sotto), Leonardo da Vinci con le sembianze di Platone ed Euclide, con i tratti di Bramante.

In particolare, relativamente a Michelangelo, alcuni pensano che il ritratto di Eraclito sia stato aggiunto in seguito, ad opera compiuta. Infatti nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano è conservato il cartone finale disegnato di proprio pugno da Raffaello, dove non compare la figura di Eraclito. Probabilmente l'autore, dopo aver visto il lavoro che Michelangelo aveva compiuto per la Cappella Sistina (una cui parte viene mostrata il 14 agosto 1511), si è sentito in dovere di aggiungere il ritratto del suo rivale nel suo affresco, dandogli le sembianze del malinconico filosofo greco ed imitandone anche lo stile.



1: Zenone di Cizio
2: Epicuro o Empedocle
3: Federico II di Mantova
4: Anicio Manlio Severino Boezio o Anassimandro o Aristosseno o Empedocle
5: Averroè
6: Pitagora
7: Alcibiade o Alessandro il Grande
8: Antistene o Senofonte
9: Francesco Maria della Rovere e rappresentazione della kalogathia greca.
10: Eschine o Senofonte
11: Parmenide o Aristosseno
12: Socrate
13: Eraclito o Democrito (Michelangelo )
14: Platone[6] (Leonardo da Vinci o fra' Giovanni Giocondo)
15: Aristotele (Bastiano da Sangallo)
16: Diogene di Sinope
17: Plotino
18: Euclide o Archimede(Bramante) con studente
19: Zoroastro (Pietro Bembo)
20: Claudio Tolomeo
R: Apelle (Raffaello)
21: Protogene (Il Sodoma o Perugino oppure Timoteo Viti)

Disputa del Sacramento




"La Disputa del Sacramento" è un affresco con base di 770 cm circa realizzato tra il 1508 ed il 1509 dal pittore italiano Raffaello.
È conservato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro Stanze Vaticane, adibita nei tempi a biblioteca papale e tribunale ecclesiastico (Città del Vaticano).
Nella parte superiore sono raffigurati gli appartenenti alla "Chiesa Trionfante", ovvero santi ed apostoli, con al centro Gesù affiancato da Maria e da Giovanni Battista.
In quella inferiore invece, abbiamo la "Chiesa militante", nella quale figurano appunto teologi, dottori e papi, ma anche filantropi e letterati; tra gli altri in questa incontriamo Savonarola, Dante, papa Giulio II, papa Sisto IV, Bramante ed altri.
Durante lo spaventoso Sacco di Roma del 1527, i Lanzichenecchi penetrarono fin dentro i Palazzi Papali, e in segno di spregio verso il papa, lasciarono numerose scritte e graffiti vandalici. Ed appunto alcune di queste incisioni sono visibili, seppur controluce, nella parte inferiore dell'affresco della Disputa.
La circolarità
Nel dipinto domina la circolarità: è ritrovabile anzitutto nella particola e nell'ostensorio, che è punto di fuga prospettico, oggetto della disputa e fulcro del mistero eucaristico.
La figura del cerchio è ancora ripresa nel cerchio sul quale è dipinta la colomba, che rappresenta lo Spirito Santo, con attorno degli angeli sorreggenti il Vangelo; nelle disposizioni dei due gruppi; nel trono su cui siede Cristo; nella grande circonferenza in alto nell'affresco, percepibile solo in parte, e volutamente: questo a fare intendere l'infinitezza di Dio, non arrivabile dall'uomo e non percepibile appunto, proprio come la figura dipinta.
Il titolo e il tema
Secondo l'interpretazione che ne dà il Vasari, e che è anche quella comune del termine in questione nella lingua italiana dei tempi, "disputa" è da intendersi come "discussione": non è perciò da connotarsi con l'aspetto di divergenza e contrasto tra coloro che discutono, seppure non è scorretto sottolineare che, dalle espressioni e dalle movenze dei personaggi, sicuramente Raffaello abbia voluto fare trasparire interesse vivo e trasporto nel discutere circa il grande mistero cristiano dell'eucarestia.
Opportuno anche notare che gli appartenenti alla "Chiesa Trionfante" sembrino anche più tranquilli e sereni rispetto ai personaggi della "militante": chiaro che santi ed apostoli, che sono saliti in cielo e stanno alla presenza di Dio siano illuminati e rasserenati dalla Sua presenza, a differenza di coloro che, ancora in vita, seppure vivano da buoni cristiani, hanno ancora viva sete di conoscenza e quella inquietudo che è di ogni essere umano non ricongiuntosi a Dio: Raffaello, nel volere considerare questo, ripropone idee già proprie della filosofia platonica ma soprattutto neoplatonica (Plotino) e riprese anche da S. Agostino; non bisogna dimenticarsi che il pittore si confrontò con il pensiero di queste scuole filosofiche durante la sua formazione giovanile. Secondo alcuni studiosi,inoltre, l'ispirazione per quest'opera sarebbe venuta a Raffaello ascoltando in San Pietro un'orazione del dotto agostiniano Egidio da Viterbo, che era un umanista neoplatonico.
Il dipinto prende in considerazione la teologia, disciplina attraverso la quale l'anima può arrivare alla verità nel campo della fede.
I personaggi
Nell'affresco non figurano appunto solo contemporanei a Raffaello o solamente personalità legate alla Chiesa; tra gli altri, troviamo: Dante, la sua figura nel medioevo ma anche nelle epoche successive è stata esaltata, ed il "sommo poeta" ha sempre avuto gloria grazie alla sua Divina Commedia, nel dipinto è riconoscibile dall'alloro che ha in capo; Bramante, fu, per così dire, protettore oltre che grande amico del pittore, e Raffaello ottenne la commissione delle Stanze Vaticane anche grazie a lui, che in pratica lo raccomandò a papa Giulio II, a discapito anche, per esempio, di Michelangelo, nel dipinto è il primo personaggio a sinistra; Savonarola: probabilmente Raffaello ha voluto inserirlo per omaggiarne il tentativo di moralizzare Firenze, con la propria predica, e farne quasi una nuova Gerusalemme, nonostante questo tentativo fallì e gli valse il rogo: Raffaello lo raffigura sesto da destra, nascosto.
Nella Chiesa Trionfante, centrale è la triade rappresentata da Cristo, al centro, affiancato dalla Madonna e da Giovanni Battista; soprattutto chiaramente riconoscibili anche Mosè, quarto da destra con in mano le tavole dei Dieci Comandamenti, e San Pietro, con le chiavi, primo da sinistra.
Accorgimenti tecnici
Il dipinto è un affresco, con tutte le difficoltà esecutive, ma anche la suggestione, che ne derivano.
Raffaello deve in questo caso operare su di una superficie che, seppure si presentasse in discreto stato ai tempi dell'esecuzione, aveva una forma inusuale e complessa ad dipingervici: la parete non è quadrangolare e si ha la difficoltà nella parte superiore data dall'arco. In aggiunta, nella parte bassa destra del dipinto si apre una porta: per compensarne la presenza non trascurabile degli infissi, Raffaello, con maestria, dipinge nell'affresco una mensola, con la quale recuperare simmetria e che s'intona perfettamente alla situazione.

Cacciata di Eliodoro dal tempio

Cacciata di Eliodoro dal tempio è un affresco; la base misura 750 cm circa, fu realizzato nel 1511 dal pittore italiano Raffaello nella Stanza di Eliodoro (Città del Vaticano).

La Cacciata di Eliodoro è una figurazione drammatica, percorsa da una rapidissima corrente di moto: le figure sono spinte ai lati, al centro è il vuoto di una prospettiva a cannocchiale, che corre dritta all'orizzonte. Raffaello vuole l'impeto del pathos michelangiolesco ma anche mantenere un distacco, l'obiettività della rappresentazione. A sinistra, Giulio II assiste alla cacciata del profanatore del tempio, che allude all'inviolabilità dei possessi della chiesa ed al suo proposito di cacciarne gli usurpatori: la figurazione ha dunque due tempi distinti, un quadro nel quadro. Tanto basta a trasporla dal piano della rappresentazione a quello della finzione, dello spettacolo teatrale. Non è un limite, né un espediente. Raffaello riafferma così, contro la concezione michelangiolesca della storia come tragedia in atto, la sua concezione della storia come exemplum: la stessa rapida prospettiva che affretta il movimento delle figure mette in rapporto diretto il Papa in primo piano con il sacerdote orante in fondo. Il moto dei personaggi è legato da un ritmo rapido, ma perfettamente scandito, come se ciascuno si muovesse lungo un tracciato prescritto, una coreografia; le luci, che irrompono dall'alto, ripetendosi a vortice sulle curve delle cupole, sono mirabili effetti di illuminazione scenica. Ogni figura esegue il proprio gesto con la precisione tecnica di una figura di danza: più rapido è il ritmo, maggiore è la bravura. La finzione scenica non è rivelazione, ma immaginazione; e l'immaginazione non è mera fantasia, ma una ricostruzione storica, che l'artista organizza. Allo sdoppiamento di piano (rappresentazione - finzione) corrisponde uno sdoppiamento all'interno stesso dell'immagine: insieme con il gesto si dà lo schema o la sigla del gesto, insieme con il moto il meccanismo del moto, insieme con la luce l'artificio dell'illuminazione, insieme con l'espressione dei volti la loro giustificazione psicologica e perfino la categoria di sentimenti espressi.

Incontro di Leone Magno con Attila


L’Incontro di Leone Magno con Attila è un affresco di cm 750 di base realizzato nel 1514 dal pittore Raffaello Sanzio e da alcuni allievi. È conservato nella Stanza di Eliodoro dei Palazzi Vaticani, nella Città del Vaticano.
L'affresco è l'ultimo realizzato nella Stanza di Eliodoro e venne ultimato dopo la morte di Giulio II (1513), durante il pontificato di Leone X.
L’episodio, storicamente avvenuto nelle vicinanze di Mantova, è ripresentato dall’artista nei pressi di Roma: infatti sullo sfondo si vedono il Colosseo, un acquedotto, una basilica ed un obelisco. Attila e il suo esercito sono atterriti dall’apparizione in cielo dei Santi Pietro e Paolo armati di spada. Sulla sinistra dell’affresco appare il papa Leone Magno, seduto su un cavallo bianco, con la mano alzata in segno di benedizione: i lineamenti del suo volto appaiono essere quelli di Leone X.

Liberazione di San Pietro


La liberazione di San Pietro è un dipinto di cm 660 di base realizzato tra il 1512 ed il 1513 circa dal pittore Raffaello Sanzio. È conservato nella Stanza di Eliodoro dei Palazzi Vaticani, a Città del Vaticano. La scena è stata resa dal Sanzio fortemente unitaria nonostante l'articolarsi del racconto in tre momenti: l'apparizione radiosa dell'angelo nel carcere, dove Pietro giace ancora profondamente immerso nel sonno e avvinto dalle catene, in prossimità della cancellata in controluce; l'angelo che conduce il santo, ancora incerto tra sogno e realtà; la scoperta della fuga da parte dei guardiani nella notte solcata dal lume della luna e dai bagliori delle fiaccole.
Nel dipinto la forte luce proveniente dall'angelo richiama Piero della Francesca e il suo Sogno di Costantino, tuttavia questa luminosità non distrugge le forme come accade, invece, nel quadro di Piero della Francesca.

Messa di Bolsena


La Messa di Bolsena è una delle scene dipinte da Raffaello Sanzio nella Stanza di Eliodoro nei Musei Vaticani.
La figurazione è divisa nettamente in due parti: a sinistra il fatto, a destra il Papa in preghiera con la sua corte. Non è un miracolo che accade; è un miracolo che si ripete davanti al Papa testimone.
Anche gli astanti a sinistra ripetono come se fossero attori i loro gesti ammirativi o dimostrativi.
Se la ricostruzione storica è ancora una proiezione immaginaria del passato, la ripetizione rituale del fatto si colloca nel presente: l'architettura all'antica, che indica un tempo remoto, è solo uno sfondo.
Lo spazio "attuale" è lo schermo scuro di un coro ligneo, cinquecentesco, che collega le due parti della figurazione: su di esso le figure, realmente presenti, spiccano per un vivace contrasto di colori allo stesso modo che in basso, invertendo il rapporto, spiccano sullo schermo vicino del marmo bianco della gradinata.
Il colore come l'illuminazione è un fattore scenico essenziale. Secondo Brizio questo ravvivato colorismo è un recupero di Piero della Francesca, i cui affreschi vennero distrutti da Raffaello per le sue "stanze".

Donazione di Roma

Battesimo di Costantino

Battaglia di Costantino contro Massenzio

Visione della croce


La Visione della croce è un affresco realizzato tra il 1517 ed il 1524, nella sala di Costantino, all'interno delle Stanze di Raffaello (Città del Vaticano). Fa parte del vasto complesso di affreschi all'interno degli appartamenti papali, affidati da Giulio II a Raffaello ed alla sua bottega.
Il soggetto del dipinto è l'episodio che la tradizione tramanda come accaduto alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, quando Costantino avrebbe avuto la visione premonitrice di una croce e della scritta "In hoc signo vinces". Tale soggetto fa parte del più vasto programma iconografico che caratterizza tutta la sala incentrato sulla vittoria del cristianesimo sul paganesimo e sull'affermazione ed il primato della chiesa romana.
La sala di Costantino è l'ultima stanza ad essere dipinta in ordine cronologico e sembra che Raffaello abbia fornito, in pratica, solo il cartone, anche a causa della morte nel 1520, e che l'affresco sia stato dipinto dagli allievi tra il 1520 ed il 1524. In particolare per quanto riguarda la Visione della croce, gli storici attribuiscono la realizzazione a Giulio Romano, forse con la collaborazione di Giovanni Francesco Penni e Raffaellino del Colle.
Interessante la vista sullo sfondo di una Roma antica ricostruita in alcuni dei suoi monumenti, tra cui si riconosce la Meta Romuli di forma piramidale, un ponte sul Tevere ed un alto mausoleo (forse il Therebinthus neronis)

Raffaello