mercoledì 5 gennaio 2011

Stanza di Eliodoro

In origine la stanza era destinata a sala di udienze e fu decorata totalmente da Raffaello, sia le pareti che la volta. Il tema iconografico è di carattere politico: con esso si vuole sottolineare la protezione accordata da Dio alla sua Chiesa, in alcuni momenti della sua storia.
Quattro gli affreschi alle pareti:
Nel soffitto Raffaello ha rappresentato quattro episodi biblici: il Sacrificio di Isacco, il Roveto ardente, la Scala di Giacobbe, l'Apparizione di Dio a Noé.
Se con Giulio II e il suo successore Leone X la Stanza della Segnatura era destinata a funzioni abbastanza private del Pontefice (forse biblioteca prima, e studio poi), alla Stanza di Eliodoro, fin dai tempi precedenti spettavano sicuramente compiti più ufficiali e solenni. Tanto che, per la parete meridionale, Pio Il (Enea Silvio Pìccolomini, l'umanista di Pienza -che, quando il futuro pontefice vi nacque, si chiamava ancora Corsignano -papa dal 1458 al 1464) aveva commissionato un grande affresco a Piero della Francesca: all'epoca, una sorta di "top", il massimo possibile. Esistono i conti del ponteggio (16 ottobre 1458), e i pagamenti all'artista (fino al 23 maggio 1459); il Vasari, nelle Vite, ci dice che vi erano ritratti i maggiori dignitari laici e religiosi del tempo di Eugenio IV (1431-47); recentemente è ricomparsa copia del ritratto di Giovanni Vitelleschi, che
Raffaello fece fare al suo allievo Giulio Romano per Paolo Giovio.
Quando Raffaello, dunque, s'accinge al suo lavoro, nel 1511, l'affresco è ancora in situo Come pure esistevano la volta, già dipinta per Giulio Il dal Peruzzi (e che all'inizio era stato deciso non sarebbe stata modificata), e altri affreschi ancora, di SignoreIli e Bramantino. Una sala quindi importante: sembra che già in precedenza ospitasse le udienze, e questo ben s'intona -appunto -con la rilevanza dell'affresco di Piero, e con le stesse divorum imagines del Signorelli, sacrificati forse anche dalla nuova disposizione delle finestre. Di questi affreschi, infatti, purtroppo non soprawive più nulla. Soltanto la chiave dell'arcata sopra il raffaellesco Incontro tra Leone Magno e Attila può essere attribuita a Luca SignoreIli, ed è quanto rimane del suo lavoro qui; mentre quella sopra la Cacciata di Eliodoro potrebbe essere del Bramantino, anche per similitudine con un'opera conservata agli Uffizi; e la chiave sopra la Liberazione di San Pietro, infine, potrebbe essere di Lorenzo Lotto, che nel 1509 viene pagato per questa carnera. Rispetto alla Segnatura, l'opera raffaellesca qui muta sensibilmente, e forse anche per la diversa destinazione dei due ambienti. La Segnatura ispira quiete e riflessione; la Stanza d'Eliodoro è invece più "accesa" nelle intonazioni e in ciò che suggerisce. Del resto, quella sala era fruita in modo privato; qui, invece, il destinatario delle decorazioni è più pub, l blico, quindi il loro obiettivo dev'essere più "ufficiale": cosÌ, i soggetti j' stessi non sono più ideali o astratti, ma faccende, personaggi e affari di questo mondo. Quantunque la seconda Stanza venga completata sotto Leone X, il suo apparato è sicuramente una scelta di Giulio Il in perso, I na. Infatti, il tema di fondo e unificatore è la controffensiva di Papa Della Rovere verso i Principi ribelli e i religiosi scismatici, che culminò, nel 1512, nella convocazione del quinto Concilio Laterano. Quattro cornici, per quattro storie: il Sommo sacerdote dell'Antica alleanza nella Cacciata di Eliodoro; il primo papa nella Liberazione di San Pietro; il Pontefice salvatore di Roma nell'Incontro tra Leone Magno e Attila; e Giulio stesso (ritratto, in sedia gestatoria, anche nella Cacciata di Eliodoro quasi vi soprintendesse), interpretato come guardiano della Fede e testimone del miracolo, nella Messa di Bolsena. II messaggio del progetto iconografico è elementare: inutile ribellarsi alle autorità. La Stanza urla il primato del Papato nel mondo. E ce n'era davvero bisogno, perché, quando Raffaello inizia a dipingere questo secondo ambiente, il Papato viveva giorni senz'aItro grami. Giulio Il, che il 26 agosto 1506 era partito per la prima impresa militare nel Nord (in una di esse assolderà, per la prima volta, anche gli "Svizzeri"), nel 1511 era tornato a Roma dall'ultima, la perdita di Bologna e le sconfitte sul campo, perfino -l'abbiam visto -con tanto di barbone scaramantico. L'inquietudine montava; lo scisma non era lontano e nemmeno il "Sacco di Roma" dei Lanzichenecchi, 1527. A questa Stanza, Raffaello lavora dal 1511 al 1514: l'ultimo mandato di pagamento è del primo agosto '14; nel soffitto, in piena sintonia con le "storie" sottostanti, quattro episodi biblici rievocano la protezione divina sul popolo d'Israele (oppure, si potrebbe anche leggere, su quello di Roma?): il Roveto ardente (sopra l'affresco di Eliodoro), la Scala di Giacobbe (sopra la Liberazione di San Pietro), Dio che appare a Noè (sopra Attila e Leone Magno), il Sacrificio di [sacco (sopra un altro miracolo, quello di Bolsena). Lo zoccolo, invece, è decorato a chiaroscuro, con undici cariatidi allegoriche (commercio, religione, legge, pace, e così via), forse ancora di Perin del Vaga o, per altri, del Penni; più in basso, infine, piccoli scomparti imitano bassorilievi in bronzo e ritraggono la prosperità dei domini della Chiesa. E veniamo, finalmente, ai quattro affreschi maggiori, due semicerchi di sette metri e mezzo di base che si fronteggiano, ed altri due, con tuttavia incastonate le finestre, la cui base è di circa un metro inferiore. La Cacciata di Eliodoro si svolge in un edificio di linee abbastanza assimilabili a quelle della Scuola d'Atene nella Segnatura; ma iI ritmo della scena è più vorticoso e assai meno statico. Il profanatore del tempio Eliodoro è ormai sotto gli zoccoli del cavallo del messo divino, mentre in fondo il sacerdote Onias sta pregando. Asinistra, papa Giulio assiste (o presiede?) in posizione dominante; uno dei due sediari che gli sono accanto, per tradizione si crede Giulio Romano (e il Vasari lo riproduce nelle sue Vite); altri, invece, lo reputa il vero autoritratto di Raffaello. Questo affresco, forse più ancora d'altri, ha subito seri danni, riferibili al periodo del Sacco di Roma e agli svillaneggiamenti dei Lanzichenecchi: negli ambienti furono infatti accesi fuochi, e le pitture messe a repentaglio da colpi d'alabarda, gli affreschi perfino sciupati da graffiti (alcuni, ritrovati durante i restauri, inneggiano a Carlo Ved evocano Martin Lutero); del resto, nello stesso "Sacco" andarono anche perdute le originarie vetrate, opera di Guglielmo de Marcillat. Analogamente non esistono più gli stalli della Segnatura (di Giovanni da Verona). Salve invece le porte tra Stanza e Stanza, intarsiate a disegno, opera dello stesso Giovanni da Verona e di Giovanni Barilli, da tempo rimosse anche per difenderle dai turisti. Uno dei più famosi viaggiatori all'epoca del Grand Tour, Charles De Brosses, inoltre, nel 1740 lamenta le precarie condizioni in cui versano gli affreschi del Sanzio, che descrive perduti nei colori e perfino nella prospettiva, fino a chiedersi: "Raphael, ubi es ?". Poi però si contraddice, e spiega che dagli affreschi si stavano traendo copie, servite poi ai Gobelins per gli arazzi che ancor oggi decorano Palazzo Farnese: forse, insomma, non erano poi tanto malmessi. Procediamo in senso orario: dopo Eliodoro, ecco la Messa di Bolsena, che, come la dirimpettaia Liberazione di San Pietro, incastona parte d'una finestra. Proprio partendo per il Nord, all'inizio della vittoriosa spedizione militare contro Bologna nel 1506, Giulio II aveva sostato a Orvieto, per rendere omaggio nel Duomo al sacro Corporale, appunto quello del miracolo di Bolsena. Nel dipinto di Raffaello, il Pontefice inginocchiato è testimone del miracolo; ma ormai il suo volto è incorniciato dal barbone, segno di sconfitta. Quello di Bolsena è un episodio tanto noto che richiede poche parole: nel 1263, un prete boemo, dubbioso sulla realtà della transustanziazione, mentre dice Messa vede stillar sangue dall'ostia consacrata; da qui !'istituzione (Urbano IV nel 1264) del Corpus Domini, il cui culto papa Sisto IV, zio di Giulio II, promuoverà ulteriormente. Alle spalle di papa Giulio, compaiono alcuni cardinali, tra cui il cugino Raffaele Riario e soprattutto, a un livello più basso, alcune Guardie svizzere. All'epoca, i Cantoni erano i principali fornitori di mercenari in Europa; il loro primo arruolamento, in funzione antifrancese, si deve proprio al Della Rovere: nel 1510, dodici Cantoni e il Vallese per cinque anni s'impegnano al servizio del Papa con ben seimila uomini, accettando di non fornirne ad altri senza il placet papale. In cambio, il Della Rovere versa mille fiorini annui a ogni Cantone; sei al mese a ogni soldato; il doppio agli ufficiali: e, allora, gli "Svizzeri" non erano certamente le guardie quasi da cartolina di oggi. Secondo alcuni, infine, i cardinali potrebbero essere di Sebastiano del Piombo, per altri invece di Lorenzo Lotto. Dirimpetto alla Messa di Bolsena c'è, quasi "gemella", la parete sulla quale Piero della Francesca aveva lavorato, e dove Raffaello dipinge la Liberazione di San Pietro, dominata dalle grate della prigione di Gerusalemme. Qui l'invenzione unisce, in una composizione, tre momenti successivi: al centro, l'angelo appare al primo Apostolo; a destra, lo porta fuori dalla prigione mentre le guardie sono addormentate; nell'altro lato, le guardie si risvegliano, attonite, in una luce gelida. Completano l'opera due finte tabelle con la dedica e la datazione dell'opera, 1513. Per qualcuno, infine, quest'affresco sarebbe perfino successivo all'Incontro di Attila, che altri, invece, ritengono più tardo. È invece sicuro che Raffaello sta ancora dipingendo il quarto quadro della grande scenagrafia che è la Stanza d'ELiodoro, quando papa Giulio muore. L'incontro di Attila e Leone Magno, tuttavia, è sicuramente pensato e programmato durante il pontificato del Della Rovere: un primo abbozzo, noto attraverso due copie inglesi e una di Firenze (Palazzo Pitti) mostra di nuovo il Papa barbato in sedia gestatoria, che rivolge l'indice verso il re degli Vnni, la croce processionale piegata minacciosamente contro i nemici; in primo piano, a sinistra, un giovane, Federico Gonzaga all'età di lO anni, la cui identificazione è confermata da una lettera indirizzata a sua madre, Isabella d'Este. Come nelle altre composizioni delle Stanze, ogni ritratto è frutto di un preciso programma:
Giulio II, infatti, aveva voluto come una sorta d'ostaggio'il giovane Gonzaga, tenendolo un anno con sé, per garantirsi che il padre, Francesco Gonzaga, non avrebbe aiutato l'eterno nemico francese. Su questa parete, dove il Bramantino aveva affrescato figure di condottieri,
Raffaello ambienta l'incontro tra il re degli Unni e il Papa, avvenuto in realtà nel 452 nei pressi del Mincio, sullo sfondo di una città che è Roma: se ne vedono una basilica, un acquedotto, il Colosseo, Monte Mario turbato (come ancora periodicamente) da un incendio. Durante l'esecuzione dell'affresco, papa Della Rovere se ne va dai vivi; e così il nuovo pontefice, Leone X, nel primo bozzetto raffigurato tra i cardinali (l'ultimo a sinistra) viene "promosso", e Leone Magno assume, appunto, le sue sembianze. Anche qui alcuni evocano, in parti dell'affresco, le mani di Giulio Romano e Lorenzo Lotto. Ma ormai è il 1514, la Stanza di Eliodoro è conclusa. tocca all'Incendio.

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