Gli stucchi delle Logge, restaurati nell'Ottocento, avrebbero bisogno che qualcuno vi mettesse di nuovo le mani"; nell'Ottocento, poi pavimenti e vetrate hanno notevolmente alterato l'ambiente stesso delle Logge: specialmente la sostituzione, avvenuta nel 1869, dell'antico cotto policromo con marmo bianco ebardiglio, perfino lustrato a specchio. Le tende che chiudono le vetrate hanno mutato gli originali effetti di chiaroscuro; inoltre, anche le balaustre sono state murate, mutando così ulteriormente le fonti di luce. Ma, con i tempi che corrono, sembra quasi un grande regalo che parecchio di quanto fu compiuto sia ancora possibile ammirarlo. E riscoprire così i capolavori di quell'artista il quale "capisce come le posizioni antitetiche di Leonardo e Michelangelo siano, in definitiva, i due termini d'uno stesso problema tra i quali è possibile una relazione dialettica", per ricordare un acuto giudizio di Giulio Carlo Argan. La sua Maddalena Doni (Firenze, Galleria Palatina), anche se non sorride rivaleggia con la Gioconda; la sua Madonna del cardellino (Uffizi), con la Vergine delle rocce (Louvre); le Stanze e le Logge, in qualche modo si misurano con la Sistina, e insieme formano uno dei massimi tesori della Penisola. Non a caso, sono tra le maggiori attrazioni dell'unico museo della città di Roma che nell'ultimo decennio abbia visto aumentare i suoi visitatori. I quali, magari, cercano di percepire l'eco di due Pontefici diversissimi, ma entrambi comunque da ricordare, Giulio II e Leone X. Il progetto di Giulio è di vasta portata: la sua ristrutturazione urbanistica della città, annota Manfredi Tafuri, "è insieme ristrutturazione economica, politica, ideologica, che ha come premessa i programmi urbani di Niccolò Ve Sisto IV"; l'umanesimo di Leone trae genesi dalla storia di una famiglia, q6ella dei Medici, e del suo stesso padre, il magnifico Lorenzo. Il primo è anche un guerriero; il secondo viaggia il mondo e fa già di Palazzo Madama, sua residenza ancora cardinalizia, un centro di mecenatismo; quando diventerà papa, i letterati di cui si circonda mireranno già a un idioma italiano unificato. Ma Leone dissipa il tesoro di Giulio, e "il guerriero" Giulio convoca a Roma i massimi artisti, discute prima con Giuliano da Sangallo (castello di Ostia, Castel Sant'Angelo), poi col Bramante, e Raffaello, e Michelangelo, arriva perfino Leonardo: spesso, non tutto è bianco o nero. La cappella affrescata dal Beato Angelico si è salvata, ma tante creazioni di Piero della Francesca o di Giotto o del Perugino invece no. Leone Xriesce a ottenere un po' di pace dopo le guerre del Della Rovere ma quando muore, nel 1521, si fanno i conti dei debiti che lascia: 200 mila ducati alla famiglia Bini, 32 mila ai Gaddi, in procinto di fallire il banco degli Strozzi, lO mila ducati ai Ricasoli, 80 mila al Salviati, 150 mila all'Armellini, sparita la collezione di gemme, senza argenti perfino la sacrestia di San Pietro; con suprema cattiveria, gli ambasciatori veneti arguiscono che il metallo giallo-verdognolo di cui è ricoperto il Pantheon non può essere oro "altrimenti il Papa non ve l'averia lasciato".
E l'anticlericale Gregorovius aggiunge: "L'edificio materiale di San Pietro rovinò in buona misura quello suo spirituale". Eppure, via Giulia reca il nome del Papa Della Rovere, e "Giuli" si chiamavano le prime monete della nuova Zecca, opera del Bramante; dal suo palazzo ai Santi Apostoli, il Papa fa trasportare all'ombra di San Pietro quell'Apollo del Belvedere che in breve diventa la più copiata tra le statue; Roma torna a essere quella che non è più stata dalla caduta dell'Impero, e cioè il centro classico del mondo. E ancora, per capire un po' più di quei tempi: "Nel nome Raffaello si crea il primo linguaggio artistico unitario della Penisola", ha scritto qualcuno, e sarà il "Manierismo"; "Raffaello più d'ogni altro imprime il suo sigillo su quella splendida e irripetibile "età dell'oro", con lui giunge a piena maturazione quella civiltà figurativa che s'irradierà in tutta Europa rimanendo sostanzialmente egemone per tutto il secolo e oltre", afferma lo storico dell'arte Antonio Pinelli. Raffaello che, incaricato della cura della Fabbrica di San Pietro, scrive a Baldassarre Castiglione: "lo mi levo col pensier più alto; vorrei trovar le belle forme degli edifici antichi, né so se il volo sarà d'Icaro"; "in ogni genere di pittura mai venne meno alle sue opere quella particolare bellezza che chiamano grazia", afferma il suo biografo e amico Paolo Giovio; "persegue sempre, nella vita dell'arte, il sogno di una grandezza oltre l'umana", scrive Adolfo Venturi, titolare della prima cattedra di Storia dell'Arte in Italia. Accanto, gli lavorava Michelangelo: e tanto questi fu scontroso, indooile e inquieto, quanto Raffaello fu socievole, affabile e appagato; talmente ammirato dai suoi protettori da rendere perfino credibile, sotto Leone X, un suo imminente cardinalato. I Palazzi Vaticani sono pregni di loro, e anche di tanti altri che non vanno dimenticati: a chi le sa ascoltare e comprendere, riescono ancora a raccontare, e anche in modo egregio, le loro storie. Di quando esisteva un'antica Basilica di San Pietro, per il cui tetto Carlo Magno offre mille libbre di piombo e il cui lampadario a forma di croce -acceso a Natale e Pasqua -conta 1365 luci; di quando a R,oma lavorava Giotto; di quando Leone, per erigere il nuovo centro della Cristianità (un'impresa che ha coinvolto almeno venti pontefici), grava di tasse perfino le cortigiane e ne ricava ventimila ducati; di quando nell'Urbe si misurano, proprio nei medesimi anni, tre dei massimi geni della pittura di sempre e di dovunque (Michelangelo, Raffaello, Leonardo), e anche altri (Sebastiano del Piombo; Lotto; Perugino e compagnia dipingente) che non sono certamente di secondo piano; di quando, in realtà, cominciano a nascere i primi musei al mondo; di quando i papi, fosse magari anche soltanto per proclamare la grandezza loro e del loro ideale, erano in assoluto i massimi committenti dell'arte e -in fin dei conti -del bello. Forse il massimo tesoro, anche se troppo spesso dimenticato o sottovalutato, o comunque non fruito a dovere, che la nostra Penisola -per fortuna -ancora possiede; e che nessun altro può, né forse potrà mai, vantare in misura così ragguardevole.